Dopo mesi di polemiche e correttivi, che hanno portato al definitivo rinvio, la plastic tax vedrà la luce a luglio 2020. L’obiettivo principale di questa imposta sugli oggetti monouso – almeno in linea di principio – dovrebbe essere la conversione del sistema produttivo e delle abitudini quotidiane, verso materiali e stili di vita dal minore impatto ambientale.
I problemi di inquinamento e i rischi per la salute hanno spinto scienza e industria a mettere a punto nuove soluzioni nel segno della sostenibilità. Ma la plastic tax sarà davvero utile o si tratta solo di un espediente del governo per fare cassa? Chi dovrà farsene carico e che riflessi avrà in termini economici e occupazionali? In questo approfondimento cercheremo di saperne di più.
Nell’ultima Legge di Bilancio, la cosiddetta plastic tax è una delle misure più discusse e contestate, tantoché fino alla metà di dicembre ha subito correttivi e rinvii. L’entrata in vigore, infatti, non arriverà prima del mese di luglio di quest’anno, anche se l’opinione pubblica e la politica sono divise da mesi tra sostenitori e detrattori, a prescindere dall’appoggio al governo che l’ha approvata. Il bersaglio della nuova imposta sono i MACSI, acronimo che corrisponde ai manufatti in plastica con singolo utilizzo, ovvero gli “articoli destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o di prodotti alimentari, anche in forma di fogli, pellicole o strisce, realizzati con l’impiego, anche parziale, delle materie plastiche”.
Come ha dichiarato il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, “non si tratta di una tassa generalizzata sulla plastica – materiale di cui difficilmente si può a fare a meno – ma ha l’obiettivo di disincentivare l’utilizzo di prodotti usa e getta non biodegradabili, oltre a promuovere materiali compostabili ed ecocompatibili”. Analogamente a quanto accaduto per la sugar tax, però, secondo chi si oppone al provvedimento la ragione primaria – se non esclusiva – è quella di recuperare denaro per le casse dello Stato. Come abbiamo visto, inoltre, i produttori di bibite hanno lamentato la combinazione tra queste due misure, che nel caso dei soft drink zuccherati, confezionati in bottiglie di plastica, costituirebbero una doppia tassazione. Da questo provvedimento, ad ogni modo, lo Stato prevede di ricavare 140,6 milioni entro la fine del 2020, mentre per l’anno successivo l’introito stimato dovrebbe superare di poco i 521 milioni.
Al netto delle polemiche, la plastic tax italiana si adegua alla direttiva comunitaria del 5 giugno 2019 n. 2019/904/UE, a sua volta inserita nelle misure a sostegno dell’ambiente e contro l’inquinamento da plastica e microplastiche, del quale è vittima soprattutto l’ecosistema marino.
COME FUNZIONA E CHI DEVE PAGARLA?
In sintesi, ecco cosa prevede la plastic tax in Italia:
- Dopo un ridimensionamento frutto dell’intesa nella maggioranza, la tassa ammonterà a 45 centesimi al chilogrammo per tutti i MACSI – la proposta iniziale prevedeva 1 euro al chilogrammo – tra i quali rientra anche il tetrapack (tipica confezione in materiale composito usata per il latte e i succhi di frutta) in un primo momento escluso.
- L’imposta sarà a carico delle imprese che comprano, producono o importano gli oggetti in questione, anche se è logico attendersi un riflesso sui prezzi al consumo.
- A essere esenti, invece, sono i prodotti compostabili o riciclati con una percentuale di plastica inferiore al 40%; lo stesso vale per i contenitori di medicinali e dispositivi medici.
- Per le aziende produttrici, dal 1° gennaio 2020 al 31 dicembre 2020 è previsto un credito d’imposta del 10% sulle spese sostenute per l’adeguamento tecnologico, in particolare per convertire la produzione nel segno della biodegradabilità.
- L’accertamento avviene in base a una dichiarazione trimestrale, da presentare all’Agenzia delle dogane e dei monopoli, entro la fine del mese successivo al trimestre solare a cui la stessa si riferisce. Sono previste sanzioni per il mancato pagamento dell’imposta (a partire da 500 euro), il ritardato pagamento (da 250 euro e pari al 30% di quanto dovuto), e il ritardo nella presentazione della dichiarazione (da 500 a 5.000 euro). L’imposta non va versata e non si deve presentare dichiarazione se l’importo previsto è inferiore o pari a 10 euro.